Il Vecchio e il Nuovo Mondo

 “Una sfida, in cui si vince o si perde, il pareggio non è ammesso”.

Mai come in questo momento la sfida più presente nella nostra vita di uomini e donne, che più di altre influenza la qualità delle nostre esistenze in positivo e in negativo, si concretizza nella capacità di gestire i cambiamenti cui ognuno di noi è continuamente sottoposto.

Nel corso degli ultimi decenni tutto è cambiato. Nella sfera professionale ciò che prima garantiva risultati adesso non li assicura più, a prescindere dal settore di appartenenza.

 Lavorare oggi nello stesso modo in cui si faceva dieci anni fa, significherebbe quasi sicuramente il fallimento; e mentre il mondo cambia alla velocità della luce, i nostri schemi mentali fanno fatica ad aggiornarsi alla stessa velocità.

Se pensiamo alla generazione dei nostri genitori, per esempio, possiamo identificarla come quella che ha vissuto l’impatto più sorprendente con la tecnologia: frigorifero, lavastoviglie, radio, televisore, aspirapolvere… che ha visto il prepotente ingresso dell’elettronica in casa. Era un mondo analogico fatto di oggetti ingombranti collegati tra loro da cavi. Una tecnologia che si vedeva, che occupava spazio fisico e aveva ancora a che fare con ingranaggi e voluminosi libretti di istruzioni. Il mondo dei nostri figli invece è un mondo digitale in cui la maggior parte delle cose è diventata wireless (senza fili), miniaturizzata, “invisibile” e non esistono più i libretti di istruzioni. I nostri sono figli di questo tempo, nati nell’era del digitale, dove schiacci un pulsante qui e succede qualcosa laggiù, senza che i due oggetti siano necessariamente collegati da cavi aggrovigliati.

Proviamo a raccontare a un bambino semplici concetti come “cabina telefonica” o “gettone” e che una volta, per telefonare, bisognava cercare un telefono pubblico e munirti di una manciata di gettoni, quello ti guarderebbe sorpreso come se gli stessi parlando della preistoria.

I nostri bisnonni e i nostri nonni hanno vissuto in un mondo assolutamente identico, con gli stessi ritmi, regole, ruoli e abitudini. Tra i nostri nonni e i nostri genitori ha iniziato a esserci qualche differenza, e tra i nostri genitori e noi ancora di più, ma nell’ultimo passaggio generazionale si è creato un abisso, come se invece di una ci fossero venti generazioni di differenza.

La mia generazione, quella cui appartiene chi ha un’età compresa tra i trenta e i sessant’anni, per certi versi ha avuto il compito più difficile per mandare avanti la baracca. Abbiamo ricevuto regole, valori e insegnamenti appartenenti al mondo analogico, ma ci troviamo ad affrontare le sfide di quello digitale. Se ci voltiamo verso le generazioni precedenti a chiedere consigli, spesso non sanno cosa dirci e quasi sempre ci danno indicazioni sbagliate. Abbiamo e stiamo vivendo tuttora lo stress di adattare continuamente le vecchie conoscenze alle nuove necessità. Infatti, mentre quelli prima di noi non sapevano neanche cosa fosse un telecomando, i nostri figli ci sono nati con quell’oggetto; noi, invece, abbiamo dovuto vivere la non facile transizione dal mondo dei nostri padri a quello dei nostri figli.

Perfino i vecchi detti come: “Se lasci la strada vecchia per una nuova, sai cosa lasci ma non sai cosa trovi” andrebbero aggiornati in: “Se fai le cose che hai sempre fatto, otterrai i risultati che hai sempre ottenuto”. Oggi chi continua a replicare i consolidati e rituali schemi di pensiero e di azioni, rimane indietro e poco alla volta viene inevitabilmente accantonato dal sistema in cui vive. Per questo è ormai necessario adottare nuovi paradigmi mentali che ci consentono di abbracciare il cambiamento e sfruttarlo a nostro vantaggio.

Pensiamo a uno studente informatico che passa molto tempo sui libri, a studiare argomenti in buona parte obsoleti. Adesso immaginiamo uno studente che oltre a studiare su gli stessi libri e stessi argomenti, dedica anche parte del tempo a “smanettare” sulla tastiera e a lavorare già in una software house, leggendo le più aggiornate newsletter e imparando i segreti che mai troverebbe su un testo universitario. Cinque anni dopo, chi dei due preferiresti assumere nella tua azienda come responsabile informatico? Insomma, in un mondo in cui le informazioni sono a disposizione di tutti, quel che conta non è più l’informazione in sé, ma quello che ne facciamo e come la utilizziamo. Siamo passati dall’era dell’informazione a quella della comunicazione.

Una volta, nelle ricerche del personale, il dato più considerato era il voto di Laurea. Oggi è diventato uno dei meno rilevanti. E allora, che cosa privilegiano i selezionatori di personale adesso? Privilegiano le capacità comunicative dei candidati, unitamente ad altre abilità come il saper lavorare in team, ad esempio, la flessibilità, la motivazione, la leadership personale, un atteggiamento positivo e propositivo e così via.

Dato che le capacità comunicative risultano cruciali nella società in cui viviamo, poiché fanno la differenza, quante sono le ore che i programmi scolastici dedicano alla materia? Ovviamente nessuna. E quanti corsi di aggiornamento sono offerti agli insegnanti? Nessuno!

Passando a un ambito altrettanto cruciale, in cui il modo di gestire le informazioni e trasferirle assume un ruolo fondamentale, quanta importanza viene data nei programmi di medicina alla comunicazione medico-paziente? Nessuna! Nessun aspirante medico è tenuto a dimostrare di saper comunicare per essere abilitato alla professione. Ovviamente la colpa di questo ritardo non è da attribuire alla classe docente. Poveri insegnanti fanno il massimo possibile con gli strumenti e le risorse a disposizione. Il problema sta nell’arcaica concezione del sistema scolastico, basato ancora sull’insegnamento, piuttosto che sull’apprendimento.

Qual è la differenza tra i due approcci?

L’insegnamento tradizionale prevede che ci sia, appunto, un insegnante che impartisce una serie di nozioni ai suoi studenti, i quali le ricevono in modo passivo e dogmatico. Lui decide il programma: cosa si studia, come e quando; e per aspirare a un buon voto gli studenti devono ubbidire ed eseguire.

L’apprendimento ribalta la prospettiva educativa e si mette dalla parte dello studente, considerato un soggetto attivo e partecipativo. Le informazioni vengono negoziate, condivise e rielaborate. In questo modo la possibilità che esse si sedimentino nella mente e diventino vera e propria conoscenza sono molte più alte.

Il mondo cambia, dunque, molto più velocemente della nostra mentalità, e di conseguenza sistemi sociali e organizzazioni accusano ritardi e restano indietro vittime di un’inerzia alla quale è difficile porvi rimedio. Ora, evidentemente, c’è un lavoro da fare.

Giovanni Matera

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