Ci si abitua a tutto
Cari amici, spero che le mie riflessioni sin qui espresse vi siano state di qualche utilità, sia per il vostro ruolo di titolari d’azienda sia anche dal punto di vista umano, poiché le due cose non possono essere scisse. Non esiste una vita a compartimenti stagni: ove mai la nostra attività dovesse andare male, anche il nostro privato non andrebbe meglio; e viceversa.
Ora, proviamo per un attimo a “guardarci dentro” e a osservare la scena reale. Osserviamo per un attimo la nostra azienda (o la nostra vita).
- Cosa ci tiene più in ansia: le soddisfazioni per gli utili che eventualmente stiamo accumulando o le preoccupazioni per la scarsa marginalità?
- Le persone che lavorano con noi, sono affidabili e positive o stentano a seguirci?
- Nella gestione dei problemi aziendali è indispensabile il nostro intervento o siamo stati abili a costruirci una prima linea di responsabili cui delegare settorialmente tali incombenze?
- Le vendite sono insoddisfacenti o invece così abbondanti che la produzione non riesca a far fronte a tutte le scadenze?
- Al vertice della nostra azienda regnano armonia e piena condivisione degli obiettivi o disaccordi e ostilità?
- E noi, siamo ancora in grado di sognare? Oppure la nostra energia vitale ci ha lentamente abbandonati, giorno dopo giorno, vinta da un’invisibile e inesorabile erosione?
Tra ciò che ci preoccupa e ciò che invece dovrebbe darci soddisfazione, in mezzo, ci siamo sempre noi!
Il vero problema è che ci si abitua a tutto.
Conoscete l’esperimento della rana bollita? Consiste in questo. Si prende una pentola piena d’acqua fredda e ci si mette dentro una rana viva. Se sotto la pentola si accende una piccola fiamma, la rana si lascerà tranquillamente bollire. Il cambiamento della temperatura dell’acqua sarà così lento che il povero animale ci si abituerà progressivamente e, solo quando sarà ormai troppo tardi, si accorgerà che il calore eccessivo lo sta uccidendo. Se la stessa rana fosse invece buttata in pentola quando l’acqua è già molto calda: la vedreste fare un gran salto fuori.
E’ ciò che ci succede quando iniziamo a leggere poco prima del tramonto che, senza accorgertene, proseguiamo a farlo fino a quando non si vede quasi più nulla. Poi, all’improvviso, entra in camera qualcuno che ci dice: “Che ci fai al buio?” e ci accende la luce. E solo lì ci accorgiamo di aver letto davvero al buio.
Ci si abitua a tutto. Al disordine come al malumore, allo spreco come all’inefficienza. A volte è doloroso osservare ciò che non va: dalle ingiustizie ai “fatti brutali”. Ci affezioniamo alle persone, o semplicemente non abbiamo il coraggio di parlare chiaro a noi stessi e a chi lavora al nostro fianco, accettando compromessi devastanti.
E’ necessario osservare la scena reale esistente e paragonarla con quella che avevamo nel nostro cuore e nella nostra mente, quando abbiamo dato inizio alla nostra impresa.
So a cosa state pensando: “Facile a dirsi, ma difficile a farsi”. Vero! Ma se fosse facile, non avreste mai avviato la vostra impresa. Un’“impresa” si chiama così, proprio perché è una cosa non facile da realizzare. Come in tutte le cose, si tratta di avere un preciso metodo, un po’ di pazienza e tanta buona volontà; dando per scontato che vi sia la voglia (vera) di modificare qualche nostro atteggiamento ormai cristallizzato. Con tali prerogative diviene naturale espandersi – anche in tempi di cosiddetta crisi – così come naturale diverrebbe l’unico modo per dimostrare di aver scelto realmente di essere un imprenditore vero.
Giovanni Matera
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