Non impariamo per la scuola, ma per la vita.

(Lucio Anneo Seneca)

 “Non puoi insegnare qualcosa ad un uomo, puoi solo aiutarlo a scoprirla dentro di sé.” (Gallileo Galilei)

La scuola non può più permettersi di essere luogo di un freddo sapere, ma deve educare, curare, orientare e trarre da ogni bambina/bambino e adolescente il meglio di sé, sviluppando al massimo le sue potenzialità e promuovendo il pensare e il sentire, per il superamento dei limiti del sapere stesso.

Per fare ciò è indispensabile liberarsi dal nozionismo enciclopedico che il più delle volte non rende partecipe i bambini e gli adolescenti i quali stentano a comprendere.

Il nozionismo è la negazione dello spirito critico

 È necessario sfatare l’idea che il sapere sia tutto e sempre disponibile in Rete, e fra l’altro gratuitamente e senza confronto fra verità e bufale, ipotesi e fake. Ci si sta disabituando sempre più a una metodologia di ricerca (che non sia il “copia e incolla”), ma soprattutto si sta svilendo un principio fondamentale dell’educazione scolastica: lo sviluppo dello spirito critico, obiettivo primario e irrinunciabile dell’insegnamento.

C’è da chiedersi, quindi, se è possibile tornare a unire tra loro l’educazione e l’apprendimento.

Per garantire ciò, quindi l’insegnante deve avere competenze che riguardano la dimensione cognitiva (risolvere problemi, prendere decisioni, sviluppare senso critico ecc.) e quella emotiva (sviluppare consapevolezza di sé, gestire le emozioni, sviluppare capacità empatiche ecc.). Un’educazione, dunque, che formi individui capaci di fare scelte autonome e responsabili e che sviluppino capacità di partecipazione e condivisione.

È necessaria una gestione consapevole dell’apprendimento in ogni tempo e in ogni luogo esso possa verificarsi, travalicando i luoghi e i tempi istituzionalmente a esso deputati. In tal senso i luoghi come il cinema, il teatro, le sale da concerto, le librerie, musei, quartieri, ecc., sono “altri luoghi” da affiancare alle aule scolastiche gli auditorium e alle biblioteche.

È in questi luoghi che, se utilizzati, si sviluppano metacompetenze che offrono di muoversi nell’attuale società della conoscenza, adattandosi al sistema in cui l’individuo vive modificando e correggendo costantemente la propria “forma mentis”. Queste competenze difficilmente potranno essere apprese su manuali perché necessitano dell’esperienza pratica e di apprendimento esperienziale. Attraverso l’esperienza, la conoscenza diventa una dimensione condivisa, non assunta passivamente, ma partecipata.

Se si tiene conto di questo processo, la scuola, quindi, diventa luogo anche di cura e di orientamento, dove il compito dell’insegnante è quello di trarre fuori il meglio di ognuno  da sé, dandogli la possibilità di sviluppare al massimo le proprie potenzialità e orientarsi negli spazi  del saper fare, saper essere e del saper accettare e sperare.

L’obiettivo principale della scuola è quello di creare uomini che sono capaci di fare cose nuove, e non semplicemente ripetere quello che altre generazioni hanno fatto.

(Jean Piaget)

Altro che attenersi al programma, compilare bene i registri, scrivere le programmazioni per competenze e tutta una serie di compiti sterili!

Non impariamo per la scuola, ma per la vita. (Lucio Anneo Seneca)

 Il voto è diventato il centro della scuola. Gli studenti non studiano più, non mostrano ansia per il riconoscimento del proprio impegno, relativamente al proprio sapere qualcosa ma sul come l’hanno saputo (le competenze). I genitori (non tutti, ma la grande maggioranza) non sono minimamente interessati alla crescita identitaria, culturale, sociale e umana dei loro figli, ma tutto il problema sta nell’inserire i propri figli nella società, senza preoccuparsi e immaginare, se con lo studio e l’impegno, si possa renderla migliore, cambiarla, questa società. L’unico interesse è il voto.

Il voto, appunto: “L’insegnante tiene la sua lezione su un argomento, l’alunno prepara l’interrogazione (quasi sempre impara a memoria)  su base volontaria (decide l’alunno quando essere interrogato) espone all’insegnante quello che l’insegnante vuol sentire dire e vai… con l’otto, nove e anche il dieci; salvo non ricordare più niente dopo quindici giorni. E comunque il dirigente scolastico non accetterà mai dai suoi insegnanti in sede di valutazione dell’alunno un voto che non si possa trasformare poi in sufficienza e quindi promozione. Non sia mai, che si dica che al tale istituto “si boccia”.

Non è un caso che, che ormai da un buon ventennio, le parole “diplomificio”, “laureificio” e stipendificio, facciano parte del vocabolario comune. Questo linguaggio, direbbe l’autore Italo Calvino, di “Lezioni Americane”, toglie peso e dignità alle donne e agli uomini che si sforzano di fare del loro meglio all’interno della scuola.

Si producono sempre più studenti “inutili” al mondo del lavoro. Almeno una volta a settimana, sui quotidiani, appaiono titoli cui ci si assuefa tutti: “Mancano migliaia di professionisti specializzati e tecnici che la scuola non rende”, “Diplomi specializzati cercasi”, “L’inadempienza della scuola italiana” ecc.

Secondo uno studio McKinsey, circa il 40% della disoccupazione giovanile è attribuibile alla divergenza tra profili richiesti e competenze dei giovani. Le aziende chiedono, infatti, giovani diplomati e laureati che sappiano tradurre le buone competenze teoriche in contesti concreti di lavoro.

La disoccupazione giovanile quindi non è solo legata ai cicli economici ma anche a una significativa distanza tra domanda e offerta di professionalità, che deriva da un persistente scarso dialogo tra il sistema educativo e il tessuto produttivo. L’Italia, per le sue eccellenze manifatturiere e il suo mix di specializzazioni, dovrebbe puntare verso il modello di istruzione duale tedesco fondato su un forte apprendistato, in alternanza tra scuola e lavoro e su un’istruzione superiore a carattere professionalizzante estesa fino al ciclo terziario e post terziario.

Entrambe queste due fondamentali dimensioni in Italia sono state colpevolmente trascurate per ragioni innanzitutto culturali, perché la manualità era stata considerata un discrimine da una certa parte intellettuale e politica. E solo negli ultimi anni iniziamo a recuperare il terreno.

L’ambiente scolastico, quindi, è per eccellenza dove “si impara a imparare”. Dove, piuttosto che imparare dei contenuti e delle nozioni o acquisire competenze, ci si educa a imparare ad apprendere per tutta la vita. Abraham Heschel, rabbino e filosofo polacco, ha detto: “Non è vero che imparare serve a vivere, perché imparare è vivere”.

Giovanni Matera

Per consultare altri miei articoli:

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