L’Italia si svuota: esportiamo laureati e professionisti.
L’imprenditorialità è un’abilità che avrà sempre più il ruolo che l’alfabetizzazione ha avuto nel passato”.
L’Italia esporta giovani brillanti: laureati, ricercatori, professionisti qualificati che arricchiscono il paese che li accoglie. La loro formazione ha avuto un costo per l’Italia, che investe circa 130.000 euro pro capite per l’intero percorso di studi fino alla laurea.
Un patrimonio che però andrà a vantaggio di altri: l’Inghilterra prima di tutto ma anche la Francia, La Germania, l’Australia. Gli italiani formati a spese dell’Italia arricchiscono gli altri paesi mentre il nostro deve continuare a investire, se vuole che i migranti in arrivo da noi migliorino le loro condizioni.
I dati forniti dall’Aire (Anagrafe dei residenti all’estero) confermano la fuga degli italiani verso paesi che offrono loro prospettive migliori. Nel 2006 erano poco più di 3 milioni nel 2017 sono saliti a 4 milioni 973.000. E da dove partono? Non più dal Sud. Nel 2016 in testa c’è la Lombardia con 22.981 registrazioni, seguita dal Veneto con oltre 11.000, vista la mancanza di prospettive e anche di attenzione nei loro confronti; e sembra anche che i giovani non credano più neanche nelle possibilità offerte dall’Università.
Il grande divario tra i corsi universitari, focalizzati sul business e il mondo dell’imprenditoria – secondo Giovanni Lula, Founder presso Startup Strategy – è dato dall’enorme gap che hanno con la realtà, e aggiunge: “Per ovvi motivi, i piani di studio sono programmati anni prima e questo è totalmente improduttivo per il mercato del lavoro di oggi. La formazione universitaria e la realtà imprenditoriale viaggiano a due velocità completamente diverse, per cui diventa complesso gestire questo sistema. Dal momento che si sceglie una materia, al conseguimento della laurea, è cambiato il mercato”.
In che modo la scuola, e modelli didattici innovativi possono contribuire a sostenere le aspirazioni dei giovani e a trasformare le loro attitudini in modelli vincenti di impresa? Sotto questo profilo la scuola e in generale tutto il sistema della formazione devono tornare a essere il luogo in cui si aiuta lo studente a fare emergere le proprie inclinazioni, dove scoprire e provare a risolvere problemi. Se vogliamo davvero realizzare una classe intelligente e aperta, bisogna andare oltre il tradizionale dibattito attorno alla riforma della scuola, incentrata sull’organizzazione del lavoro e sulla pianificazione dei programmi che, per altro, negli anni, hanno prodotto risultati molto scarsi. Infatti, l’indagine Ocse-Pisa ha recentemente certificato un netto calo delle competenze scientifiche e un leggero declino nella capacità di lettura negli studenti.
La scuola non può più essere un’istituzione separata dal resto della società, e in particolare dal mercato del lavoro. Oggi più che mai deve essere integrata come spazio dove allenare costantemente: curiosità, creatività, intraprendenza, rischio e imprenditorialità; oltre che apprendere nuove conoscenze ed esperienze.
Tutti i sondaggi condotti tra i giovani italiani mostrano bassi livelli di propensione al rischio e all’imprenditoria. Anche se molti ragazzi hanno minori aspettative rispetto al posto fisso e anche se aumenta, per esempio, la disponibilità a viaggiare e spostarsi, la voglia di fare impresa resta molto bassa.
Per questo il tema su come stimolare la creazione di nuove imprese è sempre più importante, e si discute spesso delle «condizioni» per farlo: semplificare la burocrazia, abbassare i costi di fare impresa, attrarre e stimolare il capitale di rischio, investire in infrastrutture digitali e nuove tecnologie. Tutte cose su cui è fondamentale agire presto, perché si tratta di condizioni fondamentali senza le quali non si va da nessuna parte.
I nostri ragazzi passano attraverso tre contesti formativi, prima di arrivare al mondo del lavoro: la famiglia, la scuola e l’università. Tutti e tre tendono a essere ambiti nei quali “essere adeguati” significa seguire regole e obiettivi dettati da altri, cui sottostare. Il tutto avviene in una cultura in cui l’imprenditorialità non viene valorizzata quasi mai e l’errore è un evento negativo. Nell’immaginario collettivo gli imprenditori sono visti più come furbi che come creatori di valore per la comunità.
L’attuale scuola insegna il “sapere” ma non il “saper fare”. In questo modo i nostri ragazzi sanno chi sono gli scrittori più importanti: si chiama nozionismo. Devono stare dentro quei codici, uguali per tutti – a scuola lo chiamano il programma – e poi finiranno con il farli nella vita. Li vogliono programmare in modo che conoscano delle cose piuttosto che altre: un concetto pensato per produrre impiegati. Un ragazzo è un genietto in qualcosa? La scuola gli risponde che però ha preso 5 in Storia dell’arte. Forma gente che si abitua a stare seduta davanti a un capo. Non ti prepara alla vita, ma a un lavoro preciso, in cui qualcuno ti dice cosa devi fare. Uscire da questi schemi non è semplice, ma la nostra vita la scegliamo noi.
Avremo bisogno, però, di un pochino di coraggio che ci permetta di liberare la nostra creatività e quel pizzico di sana follia insita in ciascuno di noi. Ciò, inevitabilmente, andrà in collisione con il “potere costituito”: la famiglia, la scuola, la chiesa, il capo, il governo; insomma, con la nostra cultura che sembra abbia stretto un patto faustiano per cui abbiamo rinunciato al nostro genio, in cambio del quieto vivere e di una stabilità apparente. “Ci prenderemo cura di te, se farai quello che ti diremo, se sarai bravo a scuola, se sarai puntuale al lavoro. Ti pagheremo bene e ti assegneremo un posto fisso. Non dovrai essere brillante, fantasioso, né ti assumerai grandi responsabilità”. Questo è il tacito accordo (a prima vista allettante) che la società ha firmato per ognuno di noi, e su quest’accordo ha organizzato l’intero sistema sociale e politico.
Tutto ciò ha funzionato, anche per un bel po’ di tempo, ma il progresso scientifico e tecnologico e la globalizzazione – cause di una maggiore competitività – hanno rimesso in discussione quell’”accordo” che inevitabilmente andrà rivisto e modificato, poiché non siamo nati per essere ingranaggi dell’enorme macchina sociale/industriale, pur essendo ben addestrati a esserlo.
Giovanni Matera
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