L’educazione all’imprenditorialità
“Non ho mai insegnato nulla ai miei studenti; ho solo cercato di metterli nelle condizioni migliori per imparare.” (Albert Einstein).
L’imprenditorialità è la capacità di una persona di tradurre le idee in azioni. In ciò rientra la creatività, l’innovazione e l’assunzione del rischio oltre alla capacità di pianificare e gestire progetti per raggiungere gli obiettivi. È una competenza utile a tutti nella vita quotidiana e nella società, serve per saper cogliere le opportunità e tradurle in lavoro, in impresa. L’educazione all’imprenditorialità è preparazione allo spirito proattivo e deve cominciare fin dalla scuola, come condizione indispensabile per l’adattabilità dei giovani a un mercato del lavoro globalizzato.
L’imprenditorialità è da anni al centro del dibattito politico ed economico europeo, ed è considerata un fattore chiave di sostenibilità per ridurre la disoccupazione giovanile. Lo spirito imprenditoriale non è mai stato tanto importante quanto in questo momento: gli imprenditori rappresentano il motore dell’economia italiana, oltre che i pilastri della ripresa economica sostenibile. Tuttavia, lo spirito imprenditoriale è qualcosa che va al di là del semplice fare soldi; è un mezzo per riuscire a intuire come e cosa è possibile fare in termini di business ancora prima che venga fatto. L’educazione all’imprenditorialità è un motore per la crescita futura e contribuirà a ispirare gli imprenditori di domani.
Per continuare a essere competitiva, l’Italia deve investire sui suoi cittadini, sui giovani, sulle loro abilità e sulle loro capacità di adattamento e innovazione. È nella scuola e nel sistema della formazione professionale che occorre cominciare per formare una nuova cultura del lavoro, incoraggiando l’assunzione del rischio e l’innovazione fino alla fase immediatamente successiva fuori dalla scuola, dove le politiche giovanili possono offrire un contributo importante per la promozione dell’autonomia e della creatività dei giovani.
La scuola italiana non prepara al lavoro. Il sistema scolastico italiano prepara gli studenti a mestieri che non faranno mai.
Che lavoro faranno i nostri figli? Non lo possiamo sapere perché quel lavoro non è stato ancora inventato e molti giovani italiani, al contrario dei colleghi statunitensi che da bambini sanno già che cambieranno in media dai cinque ai sette lavori, sono ancora alla ricerca di uno spazio di comfort che gli possa garantire un impiego stabile (il posto fisso).
L’Italia è stata da sempre un paese votato a fare impresa. Questa attitudine – che ha dato vita a quella che i sociologi e gli economisti hanno definito “Terza Italia”, fatta di distretti produttivi, capitalismo molecolare, territori che si facevano via via protagonisti – va recuperata e implementata.
In Italia, tuttavia, ogni giorno nascono quattro startup, un fenomeno che conferma la voglia di fare impresa del nostro paese. Al contrario di quelle statunitensi, però, le startup italiane sono sottocapitalizzate e hanno al loro interno poca formazione d’impresa, per cui entro un anno un terzo di loro sparisce dal mercato.
Molti dei lavori che si svolgono ancora oggi tra pochi anni non esisteranno più, e la vera differenza la faranno la conoscenza e la competenza, ma anche la passione e il coraggio di seguire le proprie aspirazioni. In che modo la scuola e i modelli didattici innovativi potranno contribuire a sostenere le aspirazioni dei giovani e a trasformare le loro attitudini in modelli vincenti di impresa? Sotto questo profilo la scuola, e in generale tutto il sistema della formazione, deve tornare a essere il luogo che aiuta lo studente a fare emergere le proprie inclinazioni, deve essere lo spazio, dove scoprire e provare a risolvere problemi, dove sbagliare e imparare a rialzarsi.
Se vogliamo davvero realizzare una classe intelligente e aperta, bisogna andare oltre il tradizionale dibattito attorno alla riforma della scuola, incentrata sull’organizzazione del lavoro e sulla pianificazione dei programmi, per offrire invece un nuovo paradigma didattico e pedagogico capace di rimettere al centro di tutto lo studente di ogni ordine e grado. Perché una cosa è certa: la scuola non può più essere un’istituzione separata dal resto della società e in particolare dal mercato del lavoro ma, oggi più che mai, deve essere integrata come spazio dove allenare costantemente curiosità, creatività e intraprendenza, oltre che apprendere nuove conoscenze ed esperienze. Niente, quindi, è più importante dell’istruzione.
L’Italia è l’unico paese europeo che non ha aumentato la spesa per studente nella scuola primaria e secondaria dal 1995. Resta ancora agli ultimi posti nella transizione scuola-lavoro, costruita ancora attorno a una visione novecentesca in cui i tempi dello studio e del lavoro erano assolutamente distinti in un percorso scandito dalla scuola, dall’eventuale specializzazione universitaria e poi dall’ingresso nel mondo del lavoro, che significava il più delle volte conservare per tutta la vita, la stessa professione nello stesso luogo.
La diversità culturale e la modernizzazione del sistema educativo, invece, sono alla base delle economie innovative e creative, perché portano la capacità e la possibilità di guardare al mondo e alla risoluzione dei problemi con una prospettiva originale e diversa.
Le nuove generazioni cambieranno dai 5 ai 7 lavori. Si tratterà di professioni completamente diverse, che forse non esistono ancora nel momento in cui si accede al mercato del lavoro per la prima volta. In altre parole, l’ultima professione che sarà svolta non è ancora stata inventata quando si affronta la prima. Più si innova e più c’è bisogno di innovare per continuare a evolvere e migliorare le condizioni sociali ed economiche.
Ieri era il web 2.0, oggi è l’industria 4.0, domani sarà qualcos’altro. Ciò che accomuna questa fase è l’automazione dei prodotti, dei servizi e dei processi. È una fase in cui le mansioni tradizionali dell’uomo sono sostituite dalle macchine. La progettazione di robot, algoritmi e applicazioni, però, richiede una forza lavoro, che sarebbe meglio chiamare “forza intellettuale” altamente qualificata. Occorre, pertanto, ripensare le politiche industriali, o meglio ripensare il nostro modello di sviluppo, opzione che diventa urgente se vogliamo mantenere e garantire alle generazioni future almeno il medesimo livello di benessere che abbiamo conquistato, e riprogettare le politiche industriali, che significa riprogettare il sistema della formazione.
Secondo uno studio McKinsey, giustappunto, circa il 40 per cento della disoccupazione giovanile è attribuibile alla divergenza tra profili richiesti e competenze dei giovani. Le aziende chiedono, infatti, giovani diplomati e laureati che sappiano tradurre le buone competenze teoriche in contesti concreti di lavoro. La disoccupazione giovanile, quindi, non è solo legata ai cicli economici ma anche a una significativa distanza tra domanda e offerta di professionalità, che deriva da un persistente scarso dialogo tra il sistema educativo e il tessuto produttivo.
Per costruire un’efficiente politica industriale anche in Italia, occorre ripartire dal sistema formativo troppo ancorato a sistemi e meccanismi obsoleti. Il nostro paese è in ritardo nella competizione globale, e se le sfide del Rinascimento parlavano la lingua italiana, la contemporaneità e la nuova Rivoluzione Industriale 4.0 sono sempre di più made in Germany, Usa e China.
Giovanni Matera
Per altri miei articoli, seguimi sul blog:
www.giovannimatera.it