Manager, ma anche Leader
“La leadership implica la capacità di stimolare l’immaginazione delle persone e di ispirarle così da spingerle nella direzione desiderata. Per motivare e guidare gli altri, ci vuole qualcosa di più del semplice potere” Daniel Goleman.
Partiamo con una bella metafora presentata da Stephen Covey, tratta dal suo libro: “Le sette regole per avere successo” di Franco Angeli, che esemplifica la differenza tra manager e leader.
Il leader è quello che sale sull’albero più alto, esamina l’intera situazione e grida: “F’ la giungla sbagliata”. Ma come rispondono spesso gli impiegati, efficienti lavoratori e manager?: “Stia zitto noi stiamo facendo progressi”. Infatti, come individui, gruppi e società commerciali, spesso siamo così occupati ad aprirci la via attraverso il sottobosco, che non ci rendiamo conto neppure di trovarci nella giungla sbagliata. E l’ambiente in rapido mutamento in cui viviamo rende la leadership efficace ancora più decisiva di quanto sia mai stata.
Oggi più che mai manager e leader non possono più essere distinti. Ai leader si chiede di sviluppare competenze manageriali, perché passione e visione non bastano per aprirsi un varco nella giungla. Serve anche la capacità di gestire, giorno per giorno, il business per fare in modo che i sogni del leader non naufraghino.
Ai manager si chiedono cuore e passione, oltre che ragione e metodo. Il manager deve gestire il sistema, ma anche guidare le persone verso il raggiungimento di quei risultati per i quali il sistema è stato creato.
Si potrebbe dire, sviluppando la metafora di Covey, che il manager deve saper insegnare ai propri collaboratori come usare il machete per avere il tempo, di tanto in tanto, di salire sull’albero più alto e controllare se la giungla è quella giusta.
Dopotutto, chiunque nella propria attività abbia un ruolo o una posizione che lo mette “sopra” ad altre persone o che gli attribuisce una qualsiasi forma di autorità, esercita nel bene o nel male una leadership. Ma come sappiamo, ci sono due modi per farlo; cioè due modi estremi di interpretare il ruolo. Vediamoli insieme.
Il Capo. La leadership del capo è assimilabile a quella di un dittatore: è estremamente autoritaria, decisionista, autoreferenziale e accentratrice. Il capo decide e agisce in prima persona, assumendosi sempre la responsabilità di ciò che fa. “Io ho fatto, io ho scelto, io ho chiuso…”, tranne quando vengono commessi degli errori, nel qual caso ci sarà sicuramente qualcun altro cui addossare la responsabilità.
Il Leader. Il leader promuove la discussione e ascolta il parere degli altri, perché lo considera una risorsa importante. Aperto alla critica, poiché non la vive come un attacco personale. Ma dopo aver ascoltato con mente aperta tutti, alla fine decide in prima persona, perché sa che è sua la responsabilità della decisione, sempre. La sua autorevolezza è riconosciuta dai membri del team mentre quella del capo è autoritaria, cioè imposta.
In quanto figura che guida un’attività di business, la prima e più importante risorsa da gestire sono le persone. Nessuno, oggigiorno, potrà mai realizzare niente di buono se non ha la capacità di creare intorno a sé una squadra.
Per fare ciò, unitamente a una considerevole dose di coraggio, ci vuole consapevolezza di sé e desiderio di lavorare su se stessi, per diventare un leader. E il fatto che, la maggior parte degli individui, che lavora nelle aziende italiane sia ancora un “analfabeta emotivo” del tutto inconsapevole di come le proprie e le altrui emozioni influenzino l’organizzazione e, di più, di come possono, a loro volta, essere influenzati, fa si che i leader dotati di elevato QE (quoziente emotivo) abbiano un vantaggio competitivo enorme, e anche per questo che vale la pena di lavorarci sopra.
D’altra parte, l’intelligenza emotiva comprende un ampio set di competenze che sono innate, ma che possono essere acquisite e migliorate al fine di raggiungere un livello di performance eccellente.
“Trattate un essere umano per quello che è, e rimarrà quello che è. Trattate un essere umano per quello che può è deve essere, e diventerà quello che può e deve essere” Goethe.
Per ottenere questo risultato è necessario avere pieno possesso delle quattro dimensioni dell’intelligenza emotiva:
Consapevolezza di sé. Spesso sottovalutata nello scenario aziendale è dunque alla base di tutto: se non riconosciamo le nostre emozioni, non riusciremo a gestirle, e ancor meno sapremo comprendere quelle altrui.
Gestione di sé. È il primo tassello fondamentale su cui si basa l’intelligenza emotiva. Infatti, se non consapevoli di noi stessi, non abbiamo alcuna possibilità di padroneggiare la seconda dimensione dell’intelligenza emotiva che è, appunto, la gestione di noi stessi e delle nostre emozioni.
Consapevolezza sociale. Se le prime due riguardano l’aspetto personale, la terza e la quarta hanno a che fare con l’intelligenza sociale, cioè la nostra capacità di rapportarci positivamente e produttivamente col mondo esterno.
Abilità sociali. La quarta è ultima dimensione dell’intelligenza emotiva è quella relativa alle abilità sociali, cioè alla capacità di relazionarsi con gli altri in maniera positiva, collaborativa e produttiva. A mio modo di vedere è questa la vera e propria cartina di tornasole che ci permette di capire se un individuo ha effettivamente un elevato “quoziente emotivo” oppure no.
Giovanni Matera
Per consultare altri miei articoli:
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