La ricchezza immateriale
Studiando il nostro cervello abbiamo potuto apprezzare le straordinarie qualità della nostra macchina per pensare, le potenzialità (e anche i limiti), il ruolo dell’intelligenza, della creatività. La domanda è: ci sarà un giorno qualcosa che supererà il cervello umano, un super-cervello che permetterà prestazioni di gran lunga superiori?
Qualcosa già esiste: l’insieme dei cervelli. Un cervello da solo, infatti, vale ben poco se non è inserito in una rete di altri cervelli. Lasciati da soli saremo come quel bambino-lupo trovato nei boschi dell’Aveyron, incapaci persino di avere un linguaggio. Tutto quello che vediamo è il risultato dell’azione combinata di una rete di cervelli, e della loro interconnessione.
Questa è, infatti, la società: una sterminata “rete nervosa” composta di miliardi di cervelli. Ed è una rete tanto più efficiente quanto più i collegamenti (e i singoli cervelli) sono sviluppati e interconnessi.
Uno dei problemi attuali, cui stiamo assistendo, è la difficoltà di questa grande rete di adeguarsi alla velocità dei cambiamenti. La tecnologia procede molto più rapidamente della capacità culturale di adattamento.
Penso che sia fondamentale porre a noi stessi la domanda di come usare l’intelligenza di cui disponiamo per vivere meglio ed evitare gli “effetti indesiderati” dello sviluppo tecnologico. Oggi sta succedendo una cosa curiosa: da un lato siamo stati così intelligenti da costruire delle macchine, computer, algoritmi, che imitano le capacità del cervello umano in modo davvero sorprendente (già vari anni fa un computer aveva battuto il campione del mondo di scacchi), dall’altro lato non siamo in grado di gestire intelligentemente questi “cervelli elettronici” e le loro straordinarie prestazioni, al punto che le nostre economie rischiano di essere messe in crisi, appunto, dagli effetti “collaterali” delle macchine.
Il nostro cervello si trova quindi, paradossalmente, a essere in competizione con la tecnologia che lui stesso ha creato. Il rischio è la perdita massiccia di posti di lavoro, dovuta al fatto che queste tecnologie non sostituiscono ormai solo i muscoli, ma in una certa misura anche la mente.
Certo, l’innovazione tecnologica sta galoppando in tanti altri campi. Basti pensare ai nuovi materiali (con tantissimi impieghi, dall’edilizia all’abbigliamento, alle lavorazioni industriali) alla nanotecnologia applicata in numerosi ambiti, ai nuovi sistemi per immagazzinare energia, alle biotecnologie (con profondo impatto su medicina, agricoltura, farmaci, biocarburanti) ecc. Ma certamente la microelettronica è quella che sta facendo più sentire le sue conseguenze ovunque: nelle industrie manufatturiera, nella distribuzione, nella vendita, nei media, nelle finanze, nella ricerca, nel management, nell’editoria, nei viaggi, nel marketing e praticamente in ogni settore economico.
Se si guarda la storia da questo punto di vista, ci si rende conto che la creatività umana, cioè il nostro cervello, è stata il grande motore del cambiamento. Specialmente nel corso degli ultimi due secoli l’esplosione di conoscenze, invenzioni, nuove forme di energia, ha cambiato radicalmente la struttura della stessa società. L’aumento verticale della scolarizzazione ha consentito un parallelo aumento dei lavori intellettuali, ieri impensabile.
La tecnologia, insomma, ha liberato le mani dalla zappa e il cervello dall’ignoranza.
Il fatto è che in passato le trasformazioni avvenivano in tempi meno rapidi, consentendo un adattamento graduale. Quindi l’elaborazione mentale sta diventando la materia prima preziosa. Infatti, uno studio della banca mondiale ha recentemente valutato che l’80 per cento della ricchezza dei paesi più avanzati è “immateriale”, cioè è rappresentata dal sapere. Ed è questo che fa la vera differenza fra le nazioni.
Quello che sta emergendo. Uno studio dell’università di Oxford prevede che nel giro di una ventina d’anni, quasi il 50 per cento dei lavori potrebbe essere svolto da sistemi automatici. Però, questi cambiamenti, creeranno anche nuovi posti di lavoro. Certamente e soprattutto nella fascia alta: ci sarà la richiesta di tecnici, ingegneri, creativi, specialisti; cioè di cervelli capaci di utilizzare le nuove tecnologie e di inventare applicazioni originali nel loro campo specifico.
E saranno proprio i paesi con la maggiore concentrazione di cervelli di questo genere
a essere vincenti.
Purtroppo nel campo educativo non stiamo andando tanto bene. Negli ultimi tempi si è molto parlato dei risultati dell’indagine per valutare le competenze dei nostri quindicenni promossa dall’OCSE, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo. Tra i paesi europei siamo agli ultimi posti delle classifiche di tutti e tre i test proposti: matematica, scienze e comprensione di un testo, con notevoli differenze tra le regioni del nord e quelle del sud.
Una cosa che colpisce è che, tra i primi cinque paesi in classifica, quattro sono asiatici… Va anche detto che i giovani asiatici (ma non solo loro) studiano molto, s’impegnano per ottenere il massimo risultato. Da noi non c’è questo spirito. E l’asticella è molto bassa.
Si è parlato poco, però, di un’altra ricerca, realizzata sempre dall’OCSE, questa volta sul livello educativo della popolazione italiana adulta, dai 16 ai 65 anni. Tra i 27 paesi europei siamo anche qui ultimi.
Il fatto è che proveniamo da una condizione di ignoranza antica, contadina, un’eredità cui lo Stato italiano non è riuscito a sottrarsi attraverso una forte azione di recupero: sappiamo quanta poca attenzione (per usare un eufemismo) ha dedicato alla cultura, alla ricerca all’università, all’eccellenza, alla “televisione”, ai modelli di riferimento. È da lì che parte l’onda lunga. Perché la vera competizione economica si fonda ormai sullo sviluppo mentale e sui saperi.
Nonostante tutto, nel campo della scienza e della tecnologia, i ricercatori italiani vantano un alto profilo: la qualità di questi italiani è eccellente. Il problema è che devono, il più delle volte, emigrare per vedere premiati i loro meriti. E avrebbero difficoltà enormi a occupare posizioni analoghe, se rientrassero in Italia.
In questo articolo si è parlato di quanto è importante far circolare le idee. Ma occorre formare le persone. E questa è la parte più difficile e ambiziosa del progetto.
Giovanni Matera
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