Tiriamo fuori i sentimenti dei nativi digitali
“Tutti vogliono le stesse cose, tutti sono uguali: chi sente diversamente va da sé al manicomio.” (Nietzsche)
I nativi digitali ancora non hanno capito che la rete non è un “mezzo” a loro disposizione che possono usare a loro piacimento, ma un “mondo” che li codifica a loro insaputa, modificando il loro modo di pensare e di sentire, per cui non sempre è facile distinguere la distanza che esiste tra reale e virtuale, poiché la piazza che i nativi digitali frequentano, non è quella reale ma quella virtuale dei social, e con effetti di “de-socializzazione”, dovuta a quella solitudine di massa tipica di chi vive, opera e comunica unicamente con i canali della rete, perdendo quella necessaria competenza sociale che non si scarica da un sito web.
Di fronte all’inevitabile rifiutare è patetico, ma sorvegliare è necessario, se non altro per capire, oltre a ciò che noi possiamo fare con la rete, ciò che la rete, ormai divenuta “mondo”, ha fatto, fa e farà di noi ancor prima che noi possiamo fare qualcosa grazie a lei. Nostro compito è anche di interpretarlo. Affinchè il mondo non continui a cambiare senza di noi.
La scuola che si limita a “istruire” perché, per ragioni oggettive e soggettive, non è in grado di “educare”, non tiene conto di questa trasformazione e, oltre a essere incapace di discernere la diversità e la specificità dell’intelligenza propria di ogni singolo studente, ancora non ha capito che senza un’adeguata educazione delle emozioni e dei sentimenti, anche l’intelligenza non si apre.
Parlo di quell’educazione capace di percorrere il tragitto che, dalle “pulsioni” che tutti noi abbiamo per natura, conduce alle “emozioni” che consentono ai nostri ragazzi di acquisire quella risonanza “emotiva” che permette loro di “sentire” immediatamente, prima ancora di riflettere, la differenza tra il bene e il male, tra ciò che è grave e ciò che non lo è.
Si tratta di formare l’uomo. Le competenze si acquisiscono dopo. Perché non è un uomo colui che è competente senza avere alle spalle una formazione che gli consente di svolgere con retto giudizio e adeguata comprensione della professione che in seguito sceglierà.
Perché questo tragitto educativo possa compiersi, sono necessarie due condizioni:
Un’oggettiva, che prevede che le nostre scuole siano composte di classi con dodici o al massimo quindici studenti, altrimenti è difficile individuare le differenti intelligenze e inclinazioni che caratterizzano ciascuno studente.
Una soggettiva, che prevede insegnanti che, oltre a un’adeguata preparazione di psicologia dell’età evolutiva – giacché hanno a che fare con ragazzi in quell’età incerta che si chiama adolescenza – dispongano anche di quella virtù che si chiama “empatia”, che non si impara a scuola, perché la si possiede per natura. E chi non la possiede, per il suo bene e per quello degli alunni, non deve insegnare onde evitare quella distanza, che spesso si riscontra, fra le domande segrete che gli studenti comprimono nel cuore e la risposta che la scuola dà sminuendo il potenziale dei tanti, troppi nostri ragazzi.
Dalle scuole secondarie superiori è bene tenere lontani i genitori che, in genere, sono interessati non tanto alla formazione come persona dei propri figli, ma unicamente alla loro promozione. Quando non avviene, rincorrono al Tar e, per evitare ricorsi, dirigenti scolastici e insegnanti tendono a un eccesso di promozioni che azzerano la meritocrazia e demotivano gli studenti che studiano rispetto a quelli che non studiano.
In quell’età gli studenti devono vedersela da soli con i loro insegnanti, senza la protezione genitoriale che serve solo a prolungare la loro infanzia e ritardare la crescita, l’emancipazione e l’assunzione di responsabilità.
Per questo e per tanti altri motivi ancora che è importante la preparazione e la formazione degli insegnanti. Una recente indagine di un dirigente scolastico ha messo in evidenza che, un quarto degli insegnanti è costituito da professionisti con doppio lavoro, un quarto da persone che non saprebbero cos’altro fare e la restante metà degli insegnanti che svolgono onestamente il loro “dovere”, senza infamia e senza lode, e che contano, come i militari, gli anni che rimangono alla pensione.
Allora se è vero che la mente non si apre, se non si è aperto il cuore, quanti sono gli insegnanti che aprono il cuore degli studenti? Quanti sanno comunicare, affascinare e suscitare l’interesse dei loro allievi?
Quindi la scuola non deve limitarsi a “istruire” cioè “inserire dentro ma, educare significa liberare. Il verbo “educare” deriva dal latino “educere”, composto a sua volta dalla preposizione “ex” e dal verbo “educere”: il verbo significa quindi “condurre fuori”, aiutare la persona a sviluppare ciò che di più autentico vive dentro di sé.
Tiriamo fuori il potenziale dei nostri ragazzi, non sminuiamoli.
Ciò, inevitabilmente, andrà in collisione con il “potere costituito”: la famiglia, la scuola, la chiesa, il capo, il governo; insomma, con la nostra cultura che sembra abbia stretto un patto faustiano per cui abbiamo rinunciato al nostro genio, in cambio del quieto vivere e di una stabilità apparente.
Giovanni Matera
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